"Io sono Mateusz"

MARTEDì 10 NOVEMBRE 2015

di Maciej Pieprzyca. Con Dawid Ogrodnik, Dorota Kolak. Polonia 2013. 112’


Al piccolo Mateusz, gravemente disabile, è stata diagnosticata una paralisi cerebrale. I medici sono convinti che non capisca niente e non possa fare progressi di alcun genere, per cui gettano la spugna. I suoi genitori no. La cura della madre e l'allegria del padre, regalano a Mateusz un'infanzia degna di essere vissuta, nonostante la frustrazione di non poter comunicare. Dovranno passare 25 anni perché qualcuno si renda conto dell'intelligenza imprigionata in quel corpo indomabile e offra finalmente a Mateusz gli strumenti per dire chi è e chi è sempre stato. 
 La storia s'ispira a quella di Przemek che però è stato "liberato" dall'incomprensione (e dall'etichetta di vegetale) prima del personaggio fittizio, all'età di 16 anni. D'altronde, per quanto si esageri, dieci anni in più non sono certo sufficienti a rendere toccabile la sofferenza di un destino come questo, perché quella - è evidente - esula dal cinema, va oltre. Pieprzyca, invece, sta dentro il confine del romanzo cinematografico con misura e sentimento, con ironia e anche una buona dose di realismo, specie quello che riguarda la tragicommedia della sorte. Anche la performance di Dawid Ogrodnik, giovane che si sta facendo conoscere internazionalmente, ha il pregio di parlare con gli occhi più che con le storpiature del corpo, incarnando dunque il testo del film, e di porsi in perfetta continuità con il lavoro, altrettanto stupefacente, di Kamil Tkacz, Mateusz bambino.
Nella prima parte, Mateusz guarda gli altri, la sua famiglia, ma anche i vicini di casa e una ragazza in particolare. L'inquadratura principale di questo grande capitolo divide lo schermo in due, pur restando nell'interno domestico: da un lato la cucina, luogo di lavoro e discussione, dall'altro il salotto con la finestra di Mateusz. È un'inquadratura ben scelta, che rende l'idea dello spazio di protezione in cui è inserito il protagonista, ma anche della presenza di una barriera, la barriera dell'incomunicabilità. Nella seconda parte del film, ambientata nell'istituto psichiatrico, il punto di vista muta: ora sono gli altri a guardare Mateusz. C'è chi lo fa in maniera paternalistica, chi per inerzia, sconfortato, con più o meno pazienza, persino con opportunismo, quello sentimentale, il peggiore. Il finale del film si può leggere come un terzo mutamento, con Mateusz finalmente in condizione di allargare la sua visione. 
Il film è dedicato alla scomparsa Ewa Pieta, autrice di un primo documentario su Przemek: Like a Butterfly. (Marianna Cappi)


4 commenti:

  1. Mi è piaciuto moltissimo, direi finora il migliore della rassegna. Realistico e poetico nello stesso tempo, riesce a rappresentare la condizione umana e familiare del protagonista con grande verità.
    Mi ha colpito in particolare la figura del padre vero ispiratore esistenziale di Mateusz, con la sua forza e la sua semplicità ed ironia è riuscito a salvare il figlio dalla disperazione.

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  2. IL film è molto avvincente, ricco di caritatevole forza umana. Manca però una sia pur minima dimensione religiosa. (E' mai possibile che nella cattolica Polonia compaia solo di sfuggita un piccolo crocefisso in un dormitorio?)

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    1. Mi sembra un'osservazione interessante, in effetti la figura del sacerdote è quasi irritante per la sua superficialità e il pensiero su Dio di Mateusz è ironico e distaccato. Forse nel suo contemplare le stelle, come gli ha insegnato il padre si può scorgere un'apertura più spirituale.

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  3. Ecco la recensione di Enzo Riccò

    “Io sono Mateusz” di Maciej Pieprzyca

    “E’ come un vegetale”. Questo giudizio perentorio è la matrice narrativa della sconvolgente vicenda, ispirata ad una storia vera, del film “Io sono Mateusz” di Maciej Pieprzyca.
    Mateusz è un giovane polacco cerebropatico considerato, senza speranza, per anni (sedici nella realtà) incapace di intendere e interdetto ad ogni forma di comunicazione. A parte i genitori, affettivamente vicini, il mondo attorno a lui ignora la possibilità di una sua reale comprensione. Il ragazzo dimostrerà invece di vivere un silenzio assimilante, fatto di pensieri, emozioni e ragionamenti semplici, ma valutativi di una esperienza crudelmente malata di disattenzione empatica.
    La storia si sviluppa nell’arco di un tempo che va dalla fine degli anni ottanta, quando Mateusz è ancora fanciullo, al primo decennio del duemila. Il vissuto è giudicato attraverso i suoi pensieri che accompagnano, con voce fuori campo, un disarticolato tentativo di capire ciò che accade, suo malgrado, e di farsi capire, senza successo.
    Si resta stupiti nel vedere come i servizi socio - sanitari siano stati, nei suoi confronti, per diagnosi, strumenti e processi di cura, molto arretrati rispetto a quello che progettava e attuava la nostra mantovana Vittorina Gementi, negli stessi anni presso la Casa del Sole.
    La regia nella elaborazione delle inquadrature ha una mano asettica, fredda, senza grande coinvolgimento emotivo, di taglio documentaristico.
    Questa sceneggiatura didascalica, frazionata in capitoli narrativi, titolati con alfabeto speciale, è fortemente in contrasto con la grave sofferenza che segna i corpi, e più specificatamente i volti, delle persone coinvolte. In questo senso è ammirevole lo sforzo recitativo dei due attori (bambino e adulto) che interpretano Mateusz.
    Due posizioni del corpo sono simbolicamente in conflitto nel film. Quella eretta, in piedi, con sguardi dall’alto, che dovrebbe essere segno di maturità (invece vacillante), e quella supina, a livello di duro pavimento, di un ragazzo che si trascina arrancando per scoprire e cercare di capire degli adulti ottusi e sordi ai suoi richiami.
    Nel ricordo degli insegnamenti di un padre, tanto affettuoso quanto non responsabile, davanti alla commissione che deve valutare i processi cognitivi, il giovane, con sforzo indicibile, si alzerà in piedi per battere la mano sul tavolo in segno di contrarietà. Del resto, scoperta una possibile via di comunicazione, per mezzo di un alfabeto simbolico, Mateusz, con il solo il battito delle ciglia, formulerà la sua primissima frase: “Non sono un vegetale”.
    Sarà questo il modo per essere riconosciuto finalmente come persona.

    Enzo Riccò

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