Approfondimenti



L’arte di aiutare: bastano le buone intenzioni?

Il film “La bella gente” ci interroga su questo tema: quali sono le caratteristiche di una vera relazione d’aiuto? Perché nonostante le nostre buone intenzioni è talvolta difficile essere d’aiuto sul piano psicologico? Abbiamo tutti fatto esperienza di situazioni in cui le persone che volevano darci una mano le abbiamo sentite come inutili o addirittura inopportune: pensiamo ai consigli precipitosi ed inefficaci o a quelle rassicurazioni superficiali che ci fanno sentire più sconfortati e soli o ancora a quando chi vorrebbe aiutarci si dichiara disponibile e poi si “eclissa” improvvisamente. Pensiamo ancora a quei discorsi che vorrebbero essere di incitamento ma che risultano in realtà delle esortazioni giudicanti: “dovresti fare.. sbagli a pensare…ecc.” Insomma dare un aiuto non sembra un semplice dire cosa si deve fare. E’ vero d’altra parte che le “intenzioni” sono fondamentali e il desiderio autentico di offrire un aiuto ad una persona che soffre, che è confusa o sta probabilmente facendo scelte sbagliate è il presupposto a qualsiasi azione efficace. Possiamo dire che è un “punto di partenza”. Soprattutto è essenziale che questa disposizione sia profonda, sincera, empatica. E’ su questa base relazionale che si costituisce gradualmente ciò che in psicoterapia è stato definito come alleanza terapeutica o d’aiuto. Gli elementi che costituiscono questo primo livello di relazione sono in sintesi i seguenti: attenzione, ascolto, empatia, prevedibilità e disponibilità. In questo prima fase chi è in difficoltà deve innanzi tutto sviluppare fiducia nel fatto che chi ha di fronte sia interessato realmente a lui (attenzione), sia in grado di comprendere la sua situazione personale (ascolto ed empatia) e possa offrire una disponibilità prevedibile e definita. Quest’ultimo punto è importante soprattutto per evitare da un lato il rischio di creare aspettative irrealistiche, dall’altro permette di definire uno spazio ed un tempo in cui il processo di aiuto (che raramente si risolve in un solo incontro) può svolgersi con una certa sicurezza e prevedibilità. Si tratta di definire quello che in ambito professionale si chiama setting  e che nelle relazioni non professionali si definisce con una serie di aspettative e disponibilità esplicitate.  Quando ad esempio assicuriamo ad un amico che ci si sentiremo una volta alla settimana per parlare o che lo chiameremo al telefono ogni tre o quattro giorni o ci rendiamo disponibili nei suoi confronti in caso di necessità, definiamo una sorta di accordo reciproco in cui si crea il processo di aiuto. La relazione d’aiuto ha bisogno di una cornice prevedibile e affidabile. Una volta costruito questa prima base, il processo d’aiuto deve entrare nel vivo e favorire un cambiamento o un’attivazione della persona a cui esso si rivolge. Noi sappiamo che in ambito psicologico l’aiuto non dipende da qualcosa che gli altri possono fare per noi ma al contrario dalla nostra capacità di modificare il modo di vedere le cose, da un cambiamento nel modo di reagire a certe situazioni, dalla possibilità di fare corrette valutazioni e prendere decisioni, dalla gestione equilibrata dei nostri stati emotivi. Questo cambiamento che deve avvenire dal di dentro e con la nostra stessa partecipazione richiede un aiuto che non sia direttivo, autoritario o basato su un semplice “convincere l’altro”. Piuttosto è necessario costruire un atteggiamento dialogico che assomiglia a quello che Socrate utilizzava con gli ateniesi quando per le strade li interrogava su cosa fosse la verità. In questo caso il dialogo deve riguardare non una verità astratta e generale ma una condizione di “verità personale”: l’autenticità e la ricerca di un bene personale e relazionale. Provo a descrivere alcune azioni di questo processo dialogico: la prima  consiste nel rispecchiare ed esplorare con la persona in difficoltà tutti gli aspetti del problema, gli elementi reali ma soprattutto gli aspetti emotivi e i pensieri connessi allo stesso. In questa fase chi aiuta deve permettere alla persona di comprendere se stesso attraverso il lavoro di rispecchiamento e di chiarificazione che gli offre colui che aiuta. E’ come se insieme, chi aiuta e chi è aiutato, cercassero di fare ordine e di comprendere la natura di diversi oggetti contenuti in una stanza poco illuminata. Questa stanza è la mente e gli oggetti sono i vissuti (esperienze, pensieri, emozioni, aspettative..). In un secondo momento da questo lavoro di comprensione della situazione attuale, occorre far emergere e chiarire gli obiettivi verso cui la persona sente di volersi muovere (come gli piacerebbe essere, cosa gli piacerebbe che cambiasse). In questa fase chi aiuta, senza sostituirsi all’altro, dovrebbe fungere da coach, da allenatore: riconoscere gli obiettivi e cercare insieme delle strategie per raggiungerli. Individuare degli aspetti da migliorare, delle abilità da acquisire o dei modi diversi per rispondere a particolare situazioni problematiche. Tutto ciò naturalmente senza imporre o manipolare l’altro ma accompagnandolo e sostenendolo.

Essere d’aiuto in ambito psicologico vuol dire quindi creare una relazione di fiducia e di sicurezza in cui l’altra persona mette in parole i suoi pensieri e i suoi sentimenti,  noi li riformuliamo per poterli meglio condividere (rispecchiamento), poi cerchiamo insieme con  lui di chiarirli e di comprenderli più globalmente per dare ad essi un senso e individuare degli obiettivi. Su questi obiettivi infine si inserisce la nostra ulteriore azione di sostegno e di affiancamento.  Non è un percorso facile: è un’avventura a due che ci può impegnare sia nell’ambito delle relazioni personali che professionali: un’opportunità particolare per constatare come la mostra mente e il nostro cuore possono essere strumenti di benessere preziosi, non sostituibili da nessuna tecnologia.

Paolo Breviglieri

 

Le marce di protesta

 

Il film Selma ripropone una modalità di protesta e di partecipazione civile che pare essere sempre più diffusa: la marcia. Una modalità dove le persone ritrovano e propongono pacificamente una loro identità collettiva.

Vengono in mente alcune marce storiche, come quella di Gandhi, denominata Marcia del Sale, una manifestazione non-violenta che si svolse dal 12 marzo al 5 aprile 1930 in India lungo un percorso di 320 km, contro la tassa sul sale su cui vigeva un assoluto monopolio imperiale imposto dal governo britannico.

Viene in mente la Marcia per la Pace Perugia-Assisi che si tiene tutti gli anni dal 1961. Il suo ideatore Aldo Capitini la descrisse così: "Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle non collaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia". In quella occasione venne per la prima volta utilizzata la bandiera della pace e all'indomani della prima Marcia Capitini fondò il Movimento Nonviolento.

Viene in mente la Marcia delle donne e degli uomini scalzi, che in questo travagliato 2015 ha avuto lo scopo di sensibilizzare i cittadini sui problemi e le difficoltà che incontrano i migranti. La migrazione richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria identità per poter sperare di trovarne un'altra, abbandonare tutto, mettere il proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno. "Dare asilo a chi scappa dalle guerre significa ripudiare la guerra e costruire la pace". La prima tappa si è tenuta l'11 settembre in varie città fra cui Mantova, mentre ne è prevista una seconda per il 12 dicembre.

Viene in mente infine la Marcia Globale per il Clima, al fine di far comprendere ai politici il catastrofico futuro ambientale che ci aspetta a causa dell’uso eccessivo dei combustibili fossili. L'appuntamento previsto a Parigi per il prossimo 29 novembre è stato annullato, ma sono previste manifestazioni in almeno 50 città del mondo fra cui Roma. “Marceremo anche per tutti quelli che a Parigi non potranno più aderire a questa manifestazione globale” hanno detto gli organizzatori. Alla marcia romana del 29 novembre parteciperanno Legambiente, numerose associazioni ambientaliste italiane, i movimenti pacifisti e le organizzazioni che lavorano con i migranti.

 Eleonora e Serena

 

 

VERA VICINANZA E’ LA GIUSTA DISTANZA

Parlare di vicinanza nella disabilità: bisognerebbe distinguere la diversità delle problematiche (fisica, psichica ...) e delle relazioni(familiare,assistenziale ...). Per fare, comunque, un discorso generale si può partire dal negativo, dalla lontananza, che è fare l’equivalenza “disabilità-vita da scarto”, nelle forme più varie. Infatti, il rifiuto di chi dice “ritardato” e il pietismo di chi dice “poverino” nascono dallo stesso preconcetto: qualcuno è meno degli altri. Lontano è, ancora, chi ignora o sottovaluta il limite per non sentirsi coinvolto da ciò che mette in crisi la (presunta) normalità della vita. Ma è lontananza anche l’eccessiva vicinanza del fissare lo sguardo solo sul limite, sull’incapacità: così si producono la rassegnazione all’impotenza, il rancore contro l’ingiusto destino, l’amore simbiotico che porta alla chiusura verso il mondo ...  Allora, per dirla con un gioco di parole, la vera vicinanza alla persona disabile è la giusta distanza, che consiste nel rispettarla e valorizzarla.  Rispettare: questa è una persona, con un limite da accettare, magari nella sofferenza ma senza la vergogna che porta al nascondimento e all’isolamento. Anzi, si può scoprire che una sola parola, un semplice gesto da parte sua possono dare momenti di gioia, forse sconosciuti in altre situazioni. Valorizzare: questa persona è più grande del suo limite. Possiede (spesso inconsapevolmente) risorse e potenzialità, che possono svilupparsi soprattutto grazie alle relazioni, familiari ed extra- familiari.

La relazione personale aiuta a dare senso alle cose che accadono. In conclusione, sia chiaro: la vicinanza non potrà cancellare il dolore ma può favorire l’instaurarsi della capacità di fronteggiarlo e conviverci. Il che, se ci pensiamo bene, è forse la dimensione più importante dell’arte della vita. Per tutti.  

Gianni Bonato        

 

 

 

 

La relazione d’aiuto

Relazioni, incontri, scambi. Ogni giorno nella nostra vita incontriamo persone: volti, sorrisi, strette di mano, sguardi. Ogni relazione presuppone un io e un tu, un rapporto di scambio che genera sentimenti anche contrapposti: paura, rabbia, amore, gioia. Ogni relazione è uno spazio di accoglimento dell’altro. Quale altro? L’emigrato, l’handicappato, l’anziano, il malato mentale, il tossicodipendente, l’adolescente disadattato, il padre di famiglia rimasto senza lavoro. Quanti volti e sfaccettature ha la povertà! Di fronte alla richiesta d’aiuto, ognuno rischia di restare indifferente, lo stesso papa Francesco ci ha ammoniti contro la globalizzazione dell’indifferenza. Occuparsi dei “fragili”, è un imperativo! Anche chi lo deve fare per “mestiere” i professionisti dei servizi socio-sanitari o i volontari delle associazioni potrebbero rimanere indifferenti e non riuscire a dare il giusto valore alla pesantezza delle storie che ascoltano ogni giorno.  Tutta la Bibbia è centrata sull’ascolto, fides ex auditu (la fede nasce dall’ascolto). Nella vita come nel lavoro l’ascolto è disciplina dura e rigorosa. L’ascolto è l’orecchio che sa cogliere la sofferenza dell’altro attraverso un rapporto empatico per fare spazio dentro di sé a processi di accoglienza e promuovere la vicinanza, l’incontro, l’accompagnamento. Una parola viene non solo ascoltata, ma custodita nel cuore. Nella tradizione biblica il cuore è il luogo dell’ascolto fecondo. Paradossalmente nel film Samba il protagonista, negro, emigrato, fuggiasco è più capace di ascolto della sua volontaria.

Pregiudizi ed emozioni possono inibire la relazione d’aiuto. E’ importante che ciascuno riesca a dipanare dentro di sé il proprio stato d’animo e affrontare le proprie paure, per riuscire ad incontrare l’altro, il diverso. In fondo parlare di barconi, di emigrati, di naufragi scatena dentro di noi tanti sentimenti, a volte di pietà e solidarietà, a volte invece di rabbia e intolleranza. Solo la relazione profonda, la vicinanza ci evita di scadere in un rapporto banale, scontato, esteriore. Samba era in cerca del riconoscimento della propria dignità, di stima, di fiducia, di rispetto. Gesti di carità: partiamo da qui, impariamo ad accogliere la diversità, con il desiderio non di cambiare l’altro, ma noi stessi.

Sabrina Tellini

 

Verso Santiago

 

Le riflessioni di una persona che ha vissuto l’esperienza del cammino.

 

Perché andare a Santiago?

Un tempo ci si andava per scontar peccati (anche di altri), per avventura o per fede.

In fondo era come una Gerusalemme minore. Oggi la gente ha ripreso il percorso anche in modo molto laico: per una sfida, per fare vacanza, per fare amicizia, per ritrovarsi.

Alla fine credo che tutti riescano a scoprire qualcosa di poco prevedibile o addirittura sorprendente.

Io ho sentito l’urgenza di partire, dopo aver scoperto questa frase nella Lettera di Giacomo: “La preghiera sincera di una persona buona è molto potente”.

Non che mi credessi particolarmente buona, ma fiduciosa sì. Alcune persone, a me vicine, stavano da tempo soffrendo. Che cosa potevo offrire oltre la mia vicinanza? Ho pensato che Dio mi avrebbe ascoltato se avessi mescolato fatica e preghiera.

Così ho intrapreso il cammino pregando nel modo più semplice (data la fatica) e forse per me meno spontaneo: la preghiera ripetuta del cuore.

E’ passato più di un anno da allora. Ho visto che la Parola mantiene le sue promesse, con i tempi e i modi che Dio dispone.

Ma ciò che non avevo previsto è quello che ho ricevuto io: non sono mai stata così bene (neanche una vescica, né altri dolori), la testa era leggera e il cuore sereno. La preghiera del cuore mi aveva reso libera.

Lo zaino, invece, mi ha educato a sentire il corpo e mi ha guidato al discernimento.

Ci sono cose davvero necessarie e altre inutili; ci sono cose indispensabili e altre che potrebbero diventare utili. Alla fine, facendo e disfacendo lo zaino ogni giorno, sei costretto a fare delle scelte, così impari ad accettare i rischi e capisci meglio che non puoi controllare tutto. Punti all’essenziale.

Quando sono tornata da Santiago mi sono sentita un po’ aliena, straniera anche nella mia casa, in questo mondo. Non mi era mai successo prima in altri viaggi o esperienze.

Desiderio di una vita semplice o di un’anima semplice?

 

                                                                                                       A.P.

 

 

Essere vicini alle persone malate di SLA

 

Di fronte ad una malattia grave e invalidante  il malato, i familiari, gli amici, sono travolti da un vero e proprio tsunami: un evento che distrugge e azzera tutto l’orizzonte entro cui che fino a quel momento si era svolta la vita di ognuno.  La SLA è certamente una di queste condizioni: questa malattia neurologica progressiva  porta i pazienti a perdere lentamente le funzioni motorie per arrivare nelle fasi estreme ad un quadro di totale immobilità, di incapacità a parlare, a deglutire e a respirare. Le persone possono sopravvivere solo se alimentati artificialmente, con una respirazione indotta attraverso una tracheostomia. Grazie alla tecnologia il completo isolamento in cui sarebbero condannati è mitigato da comunicatori elettronici che vengono attivati grazie ai movimenti oculari.

Come è possibile stare vicini in queste situazioni al malato? Come può resistere la famiglia in questi casi? Come si debbono comportare gli amici e i conoscenti? E come può il malato stesso sopportare questo lento ritiro delle sue funzioni e delle sue possibilità di partecipazione?

Riporto quello che mi hanno insegnato alcune esperienze che ho condotto come psicologo accanto a persone malate di SLA e alle loro famiglie.

La prima riflessione che immancabilmente facevo  al termine di ogni visita domiciliare ai malati e alle loro  famiglie era più o meno la seguente: la malattia è la stessa ma ciò che la trasforma in un inferno insopportabile o in una condizione di vita speciale ma ugualmente vivibile è ciò che si crea attorno ad essa ovvero le relazioni, gli affetti, le comunicazioni. A volte mi lasciavo alle spalle situazioni di disperazione, rabbia, conflitto, altre volte di tenerezza, intimità addirittura allegria. Stessa malattia, mondi emotivi e relazionali diversi.

Che cosa faceva questa differenza? Quali erano gli ingredienti di un modo umano e comunque vitale di stare nella malattia? Ecco alcune possibili risposte:

1.      La vita al centro della scena o la malattia al centro della scena.

 

Le famiglie in cui si riesce a fare spazio per interessarsi della vita, per partecipare delle relazioni esterne, per fare entrare la vita dentro casa, sono famiglie in cui la malattia non è un “convitato di pietra” terrorizzante e mortifero ma una presenza che, pur se ingombrante, non spegne ogni altro motivo vitale.

2.      Famiglie aperte e allargate o famiglie ristrette e chiuse.

Le famiglie che possono contare su molte relazioni, sulla presenza di amici, su legami di coesione sono in grado di farcela, al contrario quando esistono già chiusure e conflitti, diffidenze e sospettosità, la malattia e la gestione della stessa produce un escalation di ritorsioni e frustrazioni che amplificano il malessere.

3.      Comunicazione aperta delle emozioni e accettazione delle stesse

Le persone che riescono a parlare dei loro stati d’animo, ad accettarli e condividerli hanno più possibilità di gestirli. Se soprattutto tra i familiari si crea questo clima di apertura emotiva, ci si può veramente sostenere a vicenda, senza paura di far soffrire l’altro o di esprimere bisogni e paure.


4.      Riconoscere i propri limiti e stanchezze e riuscire a trovare momenti di ricarica.

Spesso i familiari più stretti tendono a sentirsi in colpa se si prendono degli spazi per sé in cui svagarsi è importante invece creare un equilibrio che preveda questi tempi per evitare un esaurimento e il nascere di una frustrazione che porta alla disperazione.

5.      Non aver paura a chiedere aiuto, a coinvolgere gli altri nella vicinanza alla persona malata.

La famiglia talvolta si chiude sempre di più,  si genera una sorta di progressivo isolamento dettato da una sorta di “imbarazzo” per la malattia. I vicini, i conoscenti, vecchi amici, talvolta si allontanano. Non sanno cosa fare, sono in difficoltà, si sentono impotenti. E’ fondamentale invece “abitare le case in cui vivono gli ammalati” portare in esse le relazioni e la vita che pulsa fuori, gli umori, le notizie, ecc. Certo con discrezione e il giusto equilibrio, tuttavia abbiamo spesso lo stereotipo che “non si debba far rumore”, che l’ammalato non vada disturbato. In realtà è la presenza della malattia che ci disturba e ci allontana, contribuendo a creare attorno all’ammalato un crescente isolamento. L’aspetto che in fondo fa più soffrire è alla fine sempre questo: sentirsi isolati dal mondo. Questa condanna dipende solo parzialmente dalla disabilità che la malattia produce, in realtà e connessa ai nostri atteggiamenti, pregiudizi o blocchi emotivi. San Francesco, dovette superare un’emozione intensa di paura per avvicinarsi ad un lebbroso vincere l’isolamento in cui erano relegati.  E’ questo che dobbiamo fare anche noi per avvicinare la persona malata vincendo in fondo a noi quella oscura paura della malattia. 


Paolo Breviglieri

 


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