"Quacosa di buono"

GIOVEDì 22 OTTOBRE 2015

di George C. Wolfe. Con Hilary Swank, Emmy Rossum. Usa 2015. 104’



Kate (Hilary Swank) è una pianista di musica classica di successo, sposata e dai modi garbati, a cui è stata diagnostica la SLA (più nota con il nome di malattia di Lou Gehrig). Bec (Emmy Rossum) è un'estroversa studentessa universitaria e aspirante cantante rock che riesce a malapena a destreggiarsi in una vita estremamente caotica e confusionaria sia sul piano delle relazioni romantiche che in altri ambiti. Eppure quando Bec decide di accettare la disperata proposta di lavoro come assistente di Kate, proprio quando il matrimonio di Kate con Evan (Josh Duhamel) comincia a entrare in crisi, le due donne si affidano a ciò che diventerà un legame
non convenzionale, a volte conflittuale e ferocemente onesto. 
Senza una meta chiara nella vita, Bec è decisa a diventare l'ombra di Kate accompagnandola e traducendo per lei le situazioni più
sconcertanti e goffamente comiche. Il risultato è un cameratismo ridotto all'estremo essenziale, fatto di sostentamento quotidiano e confessioni a notte fonda.
Ma quando la sensuale, meticolosa e ostinata Kate comincia a influire sulla confusa, spontanea e inafferrabile Bec e viceversa, entrambe le donne si trovano faccia a faccia con i rispettivi rimpianti, esplorando nuovi territori ed espandendo la propria
idea su chi in realtà vogliono essere.

http://www.qualcosadibuonofilm.it/

4 commenti:



  1. La recensione di Enzo Riccò

    “Qualcosa di buono” di George C. Wolfe

    Lo sforzo interpretativo tematico di questo film ci porta su due strade che, anche se distinte, restano legate fra loro.
    La prima, emotivamente più forte e sconvolgente, riguarda l’esperienza di chi è colpito da una grave malattia degenerativa o comunque si trova in uno stato di sofferenza progressivamente debilitante.
    Alla trentacinquenne Kate, pianista bella e di successo, con una vita patinata ed elegante come le pagine di una rivista di moda, viene diagnosticata la Sla.
    La malattia soffoca la sua voce e le certezze dei suoi ordinati e composti giorni. Il suo corpo si irrigidisce in granitici spasmi e in pose capricciosamente contrarie alla sua volontà.
    Mi guardo bene dall’inoltrarmi su questa prima strada con commenti che stonerebbero con la drammaticità delle situazioni reali. Correrei il rischio di cadere nella becera arroganza di chi parla senza competenza o vissuto esistenziale.
    Di fronte alle infermità, come dice Enzo Bianchi, il maestro è colui che soffre. Gli altri, anche chi pensa di essere utile o dare consigli, come gli impacciati amici del biblico Giobbe, devono ammutolirsi e imparare di fronte alla cattedra della sofferenza.
    La seconda strada, più consona al tema della rassegna, è quella che si delinea osservando il percorso della giovanissima Bec, assunta per assistere l’ammalata, contro il parere degli assennati, quanto non empatici, parenti. Lo stesso marito, che sembra inizialmente accudente, manifesterà la disarmante incapacità di vedere una donna oltre la malattia, vedere ancora sua moglie.
    Bec è disordinata, sboccata, caotica, incompetente, provocatoria e confusa a livello sentimentale. Kate invece , soprannominata la “Signora perfettina” sembra una donna realizzata e compostamente in tinta con il quadro edulcorato degli incontri mondani che ritmano i suoi giorni.
    C’è un parallelo dissonante nella vita di queste due donne. Una sembra avere inizialmente tutto: bellezza, stabilità, amore, abilità artistiche, considerazione e stima sociale. L’altra sembra possedere solo la certezza di non avere valore perché non compresa e amata per quello che è. In un ripetersi continuo, tipico del copione dei perdenti, si lascia usare, non porta a termine nulla, e non porta avanti né passioni, né relazioni costruttive.
    C’è però un’evoluzione data dall’intreccio di questi due falsati mondi, che sono l’uno come un castello di carte e l’altro come una malefica profezia auto avverantesi.
    Da una relazione assimetrica, professionale, di servizio, si arriva ad una vicinanza che la crudeltà del morbo, sbuccia da ogni convezione. Emerge così la “passione del bene”, termine coniato dalla filosofa mantovana Luigina Mortari nel suo saggio: “Filosofia della cura”. Quella forza che, senza calcolo, ci fa “saltare il fosso” verso l’altro con tutti i rischi che si possono correre.
    Nel film “Il villaggio di cartone”(di Olmi) il vecchio prete che si prende cura dei clandestini ricercati, risponde a chi gli chiede prudenza: “Quando la carità è un rischio, proprio quello è il momento della carità”.
    L’elemento straordinario, quasi miracoloso, di questo impeto di tensione verso l’altro non è tanto, come si vede nel film, il risultato che ottiene chi è aiutato, ma la forza rigeneratrice e motivante che emerge in chi si prende cura.
    Bec, come una crisalide, sboccia ad una nuova vita. Cambia anche nell’aspetto, perdendo gli atteggiamenti di sguaiatezza e provocazione. Finalmente ha ripreso un senso di auto - stima e ringrazia l’amica ammalata di riaverle restituito il valore di se stessa.
    Alla madre che pragmaticamente la rimprovera di non pensare al suo futuro per assistere una inferma che non ha futuro, Bec dirà con orgoglio: “Sto facendo qualcosa di buono, qualcosa che ha dato senso alla mia vita”.

    Enzo Riccò

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  2. Ciao a tutti, il film mi è piaciuto, mette in luce questo processo di rivelazione di se stessi che a volte la malattia facilita. Entrambe le protagoniste si trasformano, anche dolorosamente. Il finale è drammatico e mostra un risvolto disperato come se “il buono” che Bec è riuscita a scoprire non fosse sufficiente a contrastare il “male” della malattia e la volontà di Kate di sottrarsi ad essa anche con la morte. Che ne pensate?

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  3. La prima forma della Carità, riportava Paolo Lomellini, è la "clarità": la verità, la trasparenza. Kate e Bec scelgono per diversi motivi di essere così, esercitano questa carità prima con se stesse, poi con gli altri. Tra loro diventa facile - perché prioritario - capirsi, più difficile è per chi non riesce ad affrancarsi da paure o desideri. Il rischio che colgo in loro è di diventare intransigenti e di tagliare col mondo che fatica ad essere come loro, ad esempio a non lasciar spazio a quei due uomini che le amano, e che cercano di farsi accogliere, o riaccogliere, con i loro limiti.

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    1. Anch'io penso che Kate sia stata molto intransigente con il marito e con se stessa, non ha messo in conto minimamente di poterlo perdonare, così come in effetti non è riuscita a “perdonare a se stessa” di essere malata. Credo che il tema che emerge dal film sia anche quello della capacità di accettare la realtà al di là delle nostre idealizzazioni: Kate viveva in un mondo ideale, circondata da un marito ideale, da amiche ideali, peccato che fossero tutte espressioni di un mondo che si sgretola quando dall’ideale si passa a confrontarsi col proprio e altrui limite. Di fronte a questo crollo Kate non accetta nessun compromesso, né col marito che pure soffre e sembra sinceramente addolorato, né con se stessa , per questo rifiuta alla fine di vivere nella malattia.

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